Lisandro Villagra: Addio al rugby giocato.

A pochi giorni dal suo definitivo addio al rugby giocato, Lisandro Villagra, tecnico argentino dell’Amatori Rugby Capoterra, si è voluto in qualche modo “confessare” raccontando la sua vita e parlando del suo futuro da allenatore… nell’immediato del Capoterra.

In pensione per raggiunti limiti d’età “Lichi” (ma anche Nano) a 42 anni, ha appeso le scarpette al chiodo, dopo tanti anni di onorata carriera, partendo da Cordoba, arrivando in Italia e dando anche una mano alla nazionale azzurra.

Tanti campionati nella massima serie fino a quando una chiacchierata e una stretta di mano con il presidente dell’Amatori Rugby Capoterra Carlo Baire, lo convincono a puntare le “vele” verso la Sardegna e approdare a Capoterra per lavorare con i giovani e portare alla salvezza la squadra isolana.

Lisandro Villagra: Addio al rugby giocato

Lei è argentino, perché ha scelto il rugby e non il calcio.

“Diciamo che è una tradizione di famiglia e non poteva essere diversamente. Mio padre giocava rugby e ho 4 fratelli più grandi e tutti hanno giocato a rugby. Sarebbe stato tremendo fare un altro sport”.

A che età ha iniziato a correre dietro la palla ovale?

“Ho cominciato praticamente da quando sono nato. A 5 anni ero già con la ovale e non l’ho mai mollata”.

Dove e con quale squadra?

“Ho cominciato nel club “La Tablada” di Cordoba la mia città”.

È rimasto in argentina fino a che età?

“Sono venuto in Italia quando avevo 21 anni”.

Poi l’Europa. Dove?

“Giocavo nella prima squadra del mio club poi, quando è arrivato in argentina Franco Tonni del Viadana, non ho avuto tempo per pensare e ho preso il primo volo per l’Italia e sono andato a giocare per il Viadana”.

Qual’ è stato il suo cammino nel campionato italiano. Ovvero quali maglie ha vestito?

“Come dicevo sono arrivato a Viadana dove ho fatto 4 anni, poi sono andato a Parma e nel club emiliano ho militato ben 6 anni, poi altri 4 anni a Prato e poi altri 6 a Recco. Ora Capoterra, da quest’anno”.

Le più grandi soddisfazioni?

“Sicuramente aver vestito la maglia della Nazionale italiana. Anche se per poco tempo”.

Ha vestito anche la maglia azzurra quindi?

“Ho fatto 2 test match. Nella tournée contro Fiji e Samoa”

La più grande delusione?

“Aver perso 3 finali con la Pro Recco per la promozione nella serie A d’Eccellenza”.

Poi lo scorso anno la chiamata di Carlo Baire. Perché Capoterra?

“Sinceramente con Carlo mi sento da diverso tempo. Quando sono venuto nel 2013 a giocare con Italia Classic contro il Sudafrica. Ci siamo seduti al bar per parlare un po’. In quel periodo stavo bene a Recco poi col passare degli anni sono stato attratto dal Capoterra e mi sembrava arrivato il momento giusto per provare una nuova avventura”.

Le manca l’Argentina?

“Si assolutamente, purtroppo però l’Argentina, attualmente, non sta passando un bel momento economico. Quindi per ora preferisco rimanere nella vostra isola”.

Le piace la Sardegna?

“Amo la Sardegna, amo il mare”

Poi la scelta di allenare, proprio non vuole staccarsi da questo sport?

“Questo sport mi ha dato tanto. Credo che quello di allenare le future generazioni sia il modo più indicato per restituire tutto quello che, questa disciplina mi ha dato e insegnato. Provare a trasmetterlo ai giovani e non tanto giovani”.

Domenica a Bergamo l’ultima sua gara. Cosa ha provato?

“Ho provato un po’ di delusione, tristezza, ma credo che sia giusto così. I giovani devono crescere e per crescere bisogna giocare. Quindi va bene così”.

Qual è il suo ruolo?

“Sono un mediano di mischia. N 9”.

Come vede il suo futuro?

“Sinceramente mi preoccupa un po’ il mio futuro, e quindi cerco di non pensarci tanto. Purtroppo il rugby non è come il calcio. A livello economico dico. È sempre più duro il rugby in Italia. Manca la passione per questo sport. Sono anche consapevole che non potrò vivere sempre dal rugby e quindi non ho idea del tempo che ancora utilizzerò nel fare del rugby il mio lavoro”.

È sposato?

“No”.

Com’è lo stato di salute del rugby in Sardegna?

“Ci sono due realtà abbastanza importanti come Capoterra e Alghero, però bisognerebbe fare un lavoro molto intenso partendo dalle basi”.

Vista la sua esperienza in Argentina e in Italia cosa cambierebbe per far decollare definitivamente il rugby in Italia?

“Credo sia un problema di tradizione, di mentalità. In argentina c’è veramente passione per questo sport. In Italia manca parecchio”.

Il prossimo anno ancora con il Capoterra?

“Si rimango molto volentieri ad allenare questi ragazzi”.

Dove può arrivare questa società?

“Può arrivare molto in alto. Bisognerebbe fare un piccolo sforzo a livello economico e fare degli acquisti importanti. Non ci vogliono dei fenomeni ma bensì dei giocatori che abbiano voglia di portare in alto questa squadra. Purtroppo non tutti la pensano così. Quando io vesto una maglia diventa veramente una seconda pelle. Solo ragionando in questo modo puoi dare davvero tanto a questa squadra che ti ha scelto e a tutta la società”.

Perché il rugby è tanto amato, nel mondo, rispetto a tante discipline?

“Credo sia uno sport molto leale, corretto, rispettoso. Cosa che a tanti sport questo manca. Il rugby ti insegna i veri
valori della vita”.

Qualche episodio divertente delle sua carriera lo ricorda?

“Ma, potrei stare ore ed ore a scrivere delle cose belle che mi sono successe grazie a questo sport”.

Un saluto in argentino ai tutti i tifosi di Capoterra e della Sardegna?

“Adiós Capoterra, el año que viene tenemos que hacer grande este club. Para eso hay que trabajar muy duro (El Duro Trabajo Paga). Por eso a trabajar se ha dicho”.
Adiós Capoterra, l’anno prossimo dobbiamo rendere questo club fantastico. Per questo dobbiamo lavorare molto duramente (Il duro lavoro paga). Ecco perché è stato detto di lavorare.

Ufficio Stampa
Amatori Rugby Capoterra